Luana – Pantera Nera

“Non voglio più che i miei occhi densi di bistro siano la maschera con cui allontano la vita come se
questa fosse un triste teatrino delle marionette e io una grottesca replicante”.
È questo che pensavo mentre il tatuatore disegnava sulla mia schiena una pantera nera: quell’animale era quello che mi
sarebbe piaciuto essere.
Io, adolescente così timida, sentivo sempre di arrancare con la mia andatura
sbilenca al passo delle mie coetanee così fiere e disinvolte.
Mi sarebbe piaciuto essere quella pantera
che sentivo muoversi dentro di me ma che non riusciva a guadagnarsi una presenza volumetrica nello
spazio e nel tempo.
E, così, quella ragazzina timida la camuffavo sotto il trucco, la oscuravo quasi a volerle negare la sua unicità.
Non le riconoscevo il rossore del viso, il tumulto del suo mondo interiore che moriva sulle labbra, i suoi lunghi silenzi imbronciati.
Le negavo la bellezza della sua diversità. Un giorno quella giovane donna mi ha chiesto di essere vista e, mentre lavavo via lo strato di nero che
copriva i suoi occhi, l’ho guardata e le ho chiesto scusa per averla allontanata da me.
Intanto il mio tatuaggio sfumava, lentamente, verso il grigio e pensai che, se esiste un’anima con i suoi mutamenti, allora questa è impressa sulla mia carne.
Oggi mi guardo e penso che mi piace quel disegno dai colori in dissolvenza: mi ricorda che quella ragazzina frastornata è ancora dentro di me.
Lei mi sorride per la donna che sono diventata e io le sussurro, con tenerezza, che le voglio bene.
Ci prendiamo per mano e camminiamo, a fianco, verso tutto quello che faremo insieme.

Testo: Stefania Villani 
Foto: Anna Pianura & Gerardo Albano

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Luana – Pantera Nera

Fabio – C’è sempre speranza

Dove va a finire il bianco quando si scioglie la neve?
Che succede a un palloncino ad elio
se apri la mano e molli la presa?

La libertà ha sempre contraddistinto i miei giorni, il mio carattere, la mia vita.
Libero di scegliere, libero di esprimere le mie idee, libero di viaggiare,
libero di vivere una storia d’amore folle, invidiabile, senza limiti, senza regole.

Libero di aprire le mani e di lasciare un cuore volare lontano,
come un aquilone nelle mani di un bambino, ammirando il suo volo, la sua incredibile bellezza

Quando un bambino lascia volare in alto un palloncino,
non saprà mai se e quando lo rivedrà

Lo segue con lo sguardo
e mano mano che si allontana il senso di profonda ammirazione,
cresce quella paura, quel magone, quel “potevo stringere il pugno per non lasciarlo andare”

Ho portato sottopelle il murales di Bansky.
C’è tutto dentro.
Irriverenza, tenacia, testardaggine, follia, verità, ironia, malinconia..

Manca solo un palloncino Volato chissà dove.
Via.

D’altronde nella vita e per la vita

“C’è sempre speranza”

Fabio – C’è sempre speranza

Oyoshe: Aiz’t, stand up!

Stand Up. Alzati. Alzati, cazzo!
 Se stai seduto non farai mai niente.
Se non muovi il culo, resti seduto e vedi la vita che ti attraversa senza accorgersi di te.
Mi sono alzato anche quando la vita mi ha tagliato le gambe.
Per questo giro con lo skate. La gravità e le rotelle mi portano avanti.
Giorno dopo giorno. Rima dopo rima.
Quello che ho capito da quando con un walkman sgangherato e una consolle da videogame cominciai a incastrare parole, è che solo la fatica mi gratifica.
Quando mi esprimo con le armi del microfono, sul beat, metto insieme i pezzi della mia vita.
Ogni volta che premo il tasto REC, mi alzo. I stand up.
Mi alzo e sorrido. Mi faccio una risata.
Non vale la pena intossicare l’ anima per gli altri,  si perdono solo dei frammenti della propria vita.
Frammenti che non torneranno più.
Per questo semino parole per costruire, non per distruggere.
Costruisco ponti, guardo avanti e punto la mia meta,  combattendo come un guerriero giapponese.
Anche quando mi sento strano e stranamente sconsolatovoglio andare lontano e a volte mi perdo tra ‘na vutat’ e ‘na girat’.
Quando salgo sul palco, sulle tavole di un centro sociale o su quelle dei contest internazionali, spicco il volo come un uccello in gabbia.
Ogni volta che osservo la gente che applaude e ascolta le mie parole in rima, le vedo intrecciate come un prezioso punto a croce.
Scendo dal palco e una scarica elettrica mi percorre lungo la schiena e si ferma proprio sopra l’osso sacro.
Mi sento un guerriero. Un fottutissimo guerriero.
Poso il microfono come una sciabola giapponese e mi rilasso.
La battle è finita.
Domani sarò pronto di nuovo a rialzarmi più forte di prima.
La vocina mi urla: stand up. Sus’t.  Aiz’t.  


 

Oyoshe: Aiz’t, stand up!

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