E Tu quanti tatuaggi hai?

La recente diffusione di pratiche quali i tatuaggi ed i piercing offre l’occasione per approfondire ed arricchire la conoscenza in merito ai processi di sviluppo degli adolescenti.
Le manipolazioni corporee assumono, infatti, un intento comunicativo, laddove il registro utilizzato si inscrive in una tappa evolutiva molto delicata, in cui ogni emozione ed ogni sensazione corporea acquista una risonanza particolarmente ampia.Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, questi gesti comunicativi non manifestano il desiderio di farsi notare in modo trasgressivo e provocatorio, bensì sono l’espressione – da parte dei giovani – della volontà di emergere, di distinguersi e di trovare uno sguardo di approvazione, di consenso e di identificazione.
In tal modo, il corpo assume la funzione di rappresentare e di costituire l’identità della persona: la mente si trasforma quindi nel corpo e, quest’ultimo diventa il significato, con il rischio però di travisare e di proiettare il proprio immaginario, in modo univoco, ovvero senza dare la possibilità all’altro di comunicare i propri vissuti, penalizzando così la condivisione.
Nonostante la visibilità di queste pratiche, inoltre, sembra che la scelta di farsi un tatuaggio o un piercing, nasca dall’interno, in relazione alla ritrovata intimità e confidenza con la propria dimensione corporea – tipica di questa fase evolutiva – con la funzione di sancire la propria nascita sociale, e la rispettiva assunzione di ruolo.In conclusione, le modificazioni corporee, accanto al segnalare la differenziazione di sè rispetto al mondo degli adulti, assume il ruolo di strumento attraverso il quale gli adolescenti tentano di assomigliare agli altri e, successivamente, individuare il proprio Sè, unitamente alla “cristallizzazione” di ricordi, che sono così impressi – nella forma di una rappresentazione indelebile – sotto la pelle, quasi ad arrivare simbolicamente nel cuore del vero Sè.
Dottoressa Ciaccio Simona – Psicologa, Psicoterapeuta

E Tu quanti tatuaggi hai?

ESSERI DI PELLE

Ricoprire la propria pelle con dei segni, significa voler rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe nascosto. È un voler portare fuori qualcosa che si ha dentro, senza avere però il desiderio di staccarsene del tutto.

Tatuarsi è tatuare il proprio sé. Tatuare una pelle implica riconoscersi nella propria pelle, considerarla parte essenziale e significativa della propria immagine di sé. Perché la pelle è una superficie della nostra identità, è la frontiera del nostro essere, ciò che traghetta il nostro io più intimo con quello percepito dagli altri. La pelle è la nostra frontiera con il mondo: ci separa da quello che sta fuori e, al contempo, ci consente di poter entrare e restare in contatto con i nostri simili.

Se ci soffermiamo a pensarci, i nostri occhi non vedono che pelli; le nostre mani non toccano che pelli, frammenti di pelle.

La pelle morbida ed elastica dei neonati; quella un po’ più ruvida dei bambini; quella pigmentata e brufolosa degli adolescenti; la pelle perfettamente solida ed armonica dei giovani; la pelle matura e densa degli adulti; quella raggrinzita, secca e sempre più floscia degli anziani.

Come se ognuno di noi non fosse altro che quella complessa tela che nasconde le nostre ossa: una barriera che ci protegge e al contempo ci isola e che in pochi millimetri divide l’universo esterno da quello interno.

Pur non essendoci alcuna prova che aldilà di quelle pelli che percepiamo così distintamente si nasconda anche negli altri una coscienza simile a quella che noi abbiamo di noi stessi, agiamo come se così fosse. Il cervello umano è strutturato in modo tale da farci percepire gli altri esseri umani, ricoperti di pelli simili alle nostre, come se fossero contenitori di menti, coscienze, anime, o spiriti che li rendono vivi a partire dal di dentro.

L’evoluzione ci ha convertiti in abili osservatori dei comportamenti dei nostri simili; i nostri cervelli sono in grado di captare anche i più minimi gesti o mutamenti della pelle che ricopre i volti dei nostri simili. Non possiamo leggere direttamente nella mente degli altri, ma siamo abilissimi a leggerne i segnali impressi sulla loro pelle.

La pelle ci espone e ci protegge, ha la funzione di una delicata frontiera. Si tratta di una frontiera evidentemente alquanto porosa, che vigila e ci avvisa in caso di pericoli ambientali incombenti. È l’organo più esteso e al contempo tra i più fragili che compongono il nostro organismo: una pellicola sottile ed evanescente, dal peso complessivo di circa tre chili, con un’estensione di quasi due metri quadrati e uno spessore che non va oltre un massimo di tre millimetri.

È anche relativamente molto fragile. Indica tante cose. La parte interna di noi può esprimersi attraverso la pelle. Anche il carattere; quella strana parola con la quale talvolta tendiamo a identificare il nostro particolare e specifico modo di essere al mondo.

La pelle e i frammenti di pelle disegnati sui volti e sui frammenti di corpo che osservo in queste foto, sembrano rinviare a un tentativo di superare quella barriera che la nostra natura organica ci impone di percepire come un dentro e un fuori, per far emergere l’incontro; sono dentro e sono fuori; sono l’incontro. Sono la relazione. Quanto più inattese e sorprendenti sono, tanto esse più richiedono lo sforzo della nostra immaginazione, della nostra creatività. Superare la barriera delle pelli altrui grazie alle interpretazioni dei segni che in esse percepiamo, significa creare una forma di relazione meno banale e più profonda con l’altro. diversamente, non ci resterebbe che una distanza incomprensibile; vedremmo un mostro.

E difatti, ad un occhio passivo e distratto, esterno e distaccato, non coinvolto e insensibile alle intenzioni di chi le ha prodotte e di chi le ha fatte incidere sulla propria pelle, incrostandole fin dentro la parte più intima di sé, esse appaiono mostruose; mentre ad un occhio attivo, desideroso di approssimarsi all’altro in maniera non convenzionale, provare a riconoscere cosa si cela dietro quei segni, potrebbe aiutarlo a condividere l’essenza più umana dell’umano; quella che manifesta in ogni creazione artistica genuina.

Vedere mostri produce mostri. E ogni epoca genera i suoi mostri. Non bisogna però mai dimenticare che i peggiori mostri sono quelli che non si ha il coraggio di mostrare.

Gianfranco Pecchinenda

www.gianfrancopecchinenda.it

ESSERI DI PELLE

Tatuaggi e fragilità

Aveva tatuato un drago sul polpaccio e colori forti e brillanti su tutto il corpo. I suoi tatuaggi come la sua musica regalavano ai fan una facciata da duro, una corazza da dio invincibile del rock.
Ma la realtà è che spesso l’arte, la musica, la letteratura e, lo stiamo scoprendo, anche la scelta di un tatuaggio raccontano invece storie diverse, storie di una fragilità senza rimedio leggibile solo a chi sa guardare tra le righe senza pregiudizio.
Qualcuno ha definito studi come il nostro di storie sottopelle una sorta di
“antropologia dell’autostima e dell’identità.”
Noi ci crediamo fortemente e a volte c’illudiamo che il messaggio di saper leggere un tatuaggio come una porta verso il dentro di un’anima possa arrivare alle tante persone che invece pensano che sia pura estetica, moda e basta, superficialità o peggio lo specchio di una durezza del cuore.
I tatuaggi sono espressioni culturali di individualismo, possono essere voci sussurrate o canti o persino grida disperate.
Ma ascoltare con gli occhi non è per tutti.
Ci girano nella testa le fiamme rosso e blu sui polsi di Chester Bennington mentre tende le mani verso il pubblico, il tatuaggio a forma di fede mentre stringe forte il microfono, la scritta sulla schiena, l’indelebile nome Linking Park – simbolo di successi senza fine che evidentemente non sono bastati ad alleviare un peso, un dolore grande, cresciuto dentro fino a dire basta, persino alla vita. [A. P.]

Tatuaggi e fragilità