ESSERI DI PELLE

Ricoprire la propria pelle con dei segni, significa voler rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe nascosto. È un voler portare fuori qualcosa che si ha dentro, senza avere però il desiderio di staccarsene del tutto.

Tatuarsi è tatuare il proprio sé. Tatuare una pelle implica riconoscersi nella propria pelle, considerarla parte essenziale e significativa della propria immagine di sé. Perché la pelle è una superficie della nostra identità, è la frontiera del nostro essere, ciò che traghetta il nostro io più intimo con quello percepito dagli altri. La pelle è la nostra frontiera con il mondo: ci separa da quello che sta fuori e, al contempo, ci consente di poter entrare e restare in contatto con i nostri simili.

Se ci soffermiamo a pensarci, i nostri occhi non vedono che pelli; le nostre mani non toccano che pelli, frammenti di pelle.

La pelle morbida ed elastica dei neonati; quella un po’ più ruvida dei bambini; quella pigmentata e brufolosa degli adolescenti; la pelle perfettamente solida ed armonica dei giovani; la pelle matura e densa degli adulti; quella raggrinzita, secca e sempre più floscia degli anziani.

Come se ognuno di noi non fosse altro che quella complessa tela che nasconde le nostre ossa: una barriera che ci protegge e al contempo ci isola e che in pochi millimetri divide l’universo esterno da quello interno.

Pur non essendoci alcuna prova che aldilà di quelle pelli che percepiamo così distintamente si nasconda anche negli altri una coscienza simile a quella che noi abbiamo di noi stessi, agiamo come se così fosse. Il cervello umano è strutturato in modo tale da farci percepire gli altri esseri umani, ricoperti di pelli simili alle nostre, come se fossero contenitori di menti, coscienze, anime, o spiriti che li rendono vivi a partire dal di dentro.

L’evoluzione ci ha convertiti in abili osservatori dei comportamenti dei nostri simili; i nostri cervelli sono in grado di captare anche i più minimi gesti o mutamenti della pelle che ricopre i volti dei nostri simili. Non possiamo leggere direttamente nella mente degli altri, ma siamo abilissimi a leggerne i segnali impressi sulla loro pelle.

La pelle ci espone e ci protegge, ha la funzione di una delicata frontiera. Si tratta di una frontiera evidentemente alquanto porosa, che vigila e ci avvisa in caso di pericoli ambientali incombenti. È l’organo più esteso e al contempo tra i più fragili che compongono il nostro organismo: una pellicola sottile ed evanescente, dal peso complessivo di circa tre chili, con un’estensione di quasi due metri quadrati e uno spessore che non va oltre un massimo di tre millimetri.

È anche relativamente molto fragile. Indica tante cose. La parte interna di noi può esprimersi attraverso la pelle. Anche il carattere; quella strana parola con la quale talvolta tendiamo a identificare il nostro particolare e specifico modo di essere al mondo.

La pelle e i frammenti di pelle disegnati sui volti e sui frammenti di corpo che osservo in queste foto, sembrano rinviare a un tentativo di superare quella barriera che la nostra natura organica ci impone di percepire come un dentro e un fuori, per far emergere l’incontro; sono dentro e sono fuori; sono l’incontro. Sono la relazione. Quanto più inattese e sorprendenti sono, tanto esse più richiedono lo sforzo della nostra immaginazione, della nostra creatività. Superare la barriera delle pelli altrui grazie alle interpretazioni dei segni che in esse percepiamo, significa creare una forma di relazione meno banale e più profonda con l’altro. diversamente, non ci resterebbe che una distanza incomprensibile; vedremmo un mostro.

E difatti, ad un occhio passivo e distratto, esterno e distaccato, non coinvolto e insensibile alle intenzioni di chi le ha prodotte e di chi le ha fatte incidere sulla propria pelle, incrostandole fin dentro la parte più intima di sé, esse appaiono mostruose; mentre ad un occhio attivo, desideroso di approssimarsi all’altro in maniera non convenzionale, provare a riconoscere cosa si cela dietro quei segni, potrebbe aiutarlo a condividere l’essenza più umana dell’umano; quella che manifesta in ogni creazione artistica genuina.

Vedere mostri produce mostri. E ogni epoca genera i suoi mostri. Non bisogna però mai dimenticare che i peggiori mostri sono quelli che non si ha il coraggio di mostrare.

Gianfranco Pecchinenda

www.gianfrancopecchinenda.it

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